LE DOMENICHE ALL’ORATORIO
- roncagliaenrico58
- 24 set 2023
- Tempo di lettura: 4 min

Ringrazio il Signore di avere trascorso gli anni della mia infanzia nell’altra era e di avere respirato quel profumo per qualche tempo anche dopo il grande cambiamento. Se oggi la mia vita si sta configurando come un ritorno a Itaca, è proprio perché a Itaca ho trascorso i miei primi anni, e sarei ancora abbastanza in grado di riconoscerla.
Nei miei ricordi compare un cortile stretto tra due lunghi edifici squadrati. Ad aspettarci, in quello scenario da periferia industriale, alle due del pomeriggio di ogni domenica, estate e inverno, una donna robusta e di media statura. Poteva avere circa sessant'anni, o forse meno. Tutti noi la chiamavamo "Tata", e così amava farsi chiamare da noi bambini. Gli adulti la chiamavano “Lina” o “signorina Marchi”.
Avvicinandola, sentivamo chiaramente il suo discreto affetto, ma anche la sua materna autorità. Col senno di poi si poteva scorgere in lei la lezione dei grandi educatori, specialmente di S. Giovanni Bosco, di cui spesso ci raccontava la vita. Quei racconti mi coinvolgevano così tanto, che mi immedesimavo facilmente nei vari personaggi, e avevo la netta sensazione che il Santo fosse presente in mezzo a noi, disposto a prendersi cura della nostra crescita nel bene.
Dopo un po' di accoglienza, la Lina metteva a disposizione vari giochi: dama, scacchi, monopoli, ecc... Chi, invece, avesse voluto giocare a bigliardino doveva scendere nel “bunker”, così chiamavamo una stanza seminterrata con poca luce. Per giocare a calcio c’era il campetto. Giocavamo per almeno due o tre ore. Ogni tanto, facevamo qualche pausa per andare al bar, che si trovava all'interno di uno dei due edifici. "Una bustina di brustoline" o “un ghiacciolo”, gridavamo, per farci sentire dal barista, con le poche monetine tra le dita. Il flipper era quasi sempre monopolio dei più grandi; era comunque un divertimento assistere alle prove di abilità dei bravi, o ai colpi di fortuna sfacciata dei mediocri. Il gioco del flipper era in assoluto il più rumoroso, sia per i continui segnali sonori che evocavano improbabili viaggi nello spazio, sia per lo scoppio di euforia generale al superamento dei record. Allora, tutti all’interno del bar interrompevano ciò che stavano facendo, persino gli adulti intenti al gioco delle carte.
La Lina componeva le liti; ci invitava a perdonare, a fare la pace, a non emarginare nessuno, ad essere leali, a non offendere. Ci insegnava a non lamentarci, ché anzi le sofferenze avevano un grande valore davanti a Dio. E giù con Giacinta e Francesco, con Domenico Savio, ecc.
Terminate le ore di gioco, ci conduceva in una chiesa a poca distanza, sulla statale: “la chiesa rigata”, la chiamavamo, detta anche in gergo calcistico “la chiesa della Juve”. La facciata, infatti, è dipinta a strisce bianche e nere.
C'era il traffico della domenica e dovevamo fare molta attenzione. La chiesa era buia, fresca d'estate e fredda d'inverno; ricordo ancora un forte odore di cera. Guardavamo le immagini dipinte e le statue, al lume delle candele. In fondo ad un corridoio stretto e anch'esso oscuro, c'era un'enorme statua della pietà, dipinta a colori drammatici come se fosse colpita dal bagliore di un fulmine, e lucida come sferzata dalla tempesta. Per ammirarla bisognava accendere una lampadina dalla luce fioca, sicché anche plasticamente venivamo improvvisamente proiettati al di fuori del tempo, sul Calvario, ai piedi della Madre con il Figlio morto. Non posso dimenticare, in quelle visioni settimanali, le lacrime di Maria - sembravano vere -, i suoi occhi gonfi e le pupille rivolte al cielo. Il corpo del Figlio giaceva livido tra le sue braccia, con la ferita del costato aperta, e le gocce di sangue che cadevano a terra. Gesù sembrava dormire dopo la terribile morte. Gesù è morto! Sussultava il nostro cuore di bambini. E sopra di loro una croce nuda con un lenzuolo bianco, Il bianco della Resurrezione.
"Diciamo un'Ave Maria per le mamme che piangono i loro figli morti". Giuseppe era morto da pochi giorni. Un grosso cancello gli era caduto addosso proprio mentre giocava. Aveva appena otto anni. Aveva ricevuto da poco la prima Comunione. Pensavo al dolore dei suoi genitori, che vedevo riflesso nello sguardo di Maria Santissima. Davvero si può morire anche da bambini? Questo ed altro attraversava la mia mente, ancora troppo limitata per affrontare simili argomenti.
Dopo una breve catechesi sulla vita dei santi o sul Vamgelo, fatte le dovute riverenze, la Lina ci aiutava ad attraversare la statale per giungere puntuali al Vespro nella chiesa parrocchiale.
Ecco, mi sembra ancora di vedere Gesù sacramentato sull'altare tra le fiammelle delle candele, nello splendido ostensorio. Esce il sacerdote con il lungo piviale bianco e dorato, assorto in preghiera. Con lui i chierichetti. Uno fa oscillare il turibolo, l'altro tiene la navicella dell’incenso, e un terzo il velo omerale. Si inginocchiano. Anche noi siamo in ginocchio e fissiamo quell'Ostia bianca, che sembra guardarci. Al suono dell’organo tutti cantano "Tantum ergo...". Poi il silenzio. Il fumo del turibolo sale in alto in grandi volute. Il sacerdote indossa il velo omerale che gli copre le spalle. Sul retro è ricamato un grande sole con tanti raggi dorati. Sale i gradini. Afferra l'ostensorio. Anche le sue mani sono coperte dai lembi del velo. La sua persona scompare tra gli ornamenti del vestito e si volge a noi mostrando il Santissimo Sacramento e benedicendoci. Tutti nella chiesa siamo assorti. Siamo bambini di nove, dieci, undici anni, ma sappiamo che Gesù in quel momento sta toccando i nostri piccoli cuori, per lasciarci in dono qualcosa di Sé. Il fumo dell'incenso continua a salire e si illumina a tratti, nell’attraversare le raggere dei finestroni.
Ritornando a casa, mentre il sole tramontava, mi sembrava di camminare a una spanna da terra. Di lì a poco sarei entrato in casa, la mia casa: il luogo più bello del mondo.