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Massime eterne

  • roncagliaenrico58
  • 9 apr 2024
  • Tempo di lettura: 5 min

Fino a qualche decennio fa, alla morte di una donna anziana, tra gli effetti personali, non era difficile scorgere un libro di preghiere, il compagno fedele di una vita.

Mia prozia Marcella, ne possedeva uno, che nella cadrega di vimini leggeva, muovendo appena le labbra. Lo conservo tuttora a suo ricordo, anche se è piuttosto malandato. Ha la copertina nera come il carbone e il titolo in oro, Massime eterne.

Da bambino, mi incuriosiva il taglio rosso delle pagine, che gli conferiva un’aria di tutto rispetto, ma erano soprattutto i caratteri del testo, grandi e ben marcati, ad attirare la mia attenzione.

Un giorno, venne a trovarci la Maria Incerti, una cara amica della zia. La sua visita era sempre molto gradita, non solo per la raffinata cortesia – era stata a servizio dai conti Gandini per molti anni - ma soprattutto perché ogni volta ci portava la “pagnotta di Trieste”, così chiamava una grande brioche.

Le due sferruzzarono tutto il giorno l’una accanto all’altra, facendo a gara chi ricordasse il maggior numero di fatti e persone appartenenti a un passato molto lontano. Stavano presso la finestra, nei loro vestiti neri, la zia da vedova e la Maria da ex cameriera, con le loro chiome bianche. Ogni tanto interrompevano il lavoro quasi simultaneamente, quando l’argomento si faceva più intricato, ciascuna fornendo la propria incontestabile verità.

In un angolo del pavimento, avevo appena posizionato il forte dei federali e, dietro uno sperone roccioso, l’accampamento dei Sioux. Tutto era pronto per una grande battaglia, quando Maria, nella foga dell’esposizione, si accorse di non avere più la fede. – A l’hò pérsa! – gridò, mentre osservava l’anulare, completamente spoglio.

Si diede subito alla ricerca, dapprima con un certo affanno, poi con metodo: nella borsa del lavoro, addosso, casomai fosse finita in una piega del vestito, intorno alla sedia. “Per favore – rivolta a me - tu che hai la vista buona, guarda se trovi l’anello”. 

Non era la prima volta che mi facevano cercare degli oggetti per terra e avevo già un mio piano infallibile: abbassavo la faccia fino a terra e ispezionavo da quella angolazione estrema tutta la superfice. Qualsiasi rilievo poteva essere l’oggetto ricercato. Così avevo già riportato diversi successi in questo genere di ricerche, ma quella volta il metodo non sortì alcun effetto.

“È una fede nuziale – proseguì in tono lamentoso, scuotendo il capo e sospirando – La mamma me la lasciò prima di morire” –. Rifece anche il percorso da quando era entrata in casa, ma nulla. Fu allora che alla zia – donna molto devota, vedova del sagrestano Enrico Casalgrandi - venne l’idea di farmi leggere il Si quaeris, l’inno a S. Antonio. L’amica approvò di buon grado. Mi misero il libro nero dal taglio rosso tra le mani, aperto alla pagina giusta e mi ingiunsero di leggerlo senz’altro. Non potei fare a meno di avvertire una strana sensazione: qualcosa che sapeva di investitura per un incarico solenne.

Quando vidi la preghiera che la zia indicava con il dito, era in latino. Tuttavia, cominciai:

“Si qua-eris…”

“A-e si legge e” – rimbrottò la zia.

Leggevo stentatamente senza capire nulla. Dando, però, un’occhiata furtiva alle due amiche, mi accorsi che approvavano con cenni del capo; perciò, decisi di assumere un’aria meno incerta. Poche righe più avanti dovetti interrompermi bruscamente, appena prima di leggere Jùvenes et cani (giovani e anziani). “Cosa poteva centrare la Juve? e i cani, poi?” Ero indeciso: pensavo che, forse, sarebbe stato meglio saltare quelle parole, che giudicavo inadatte alla solennità del momento. Alla fine, comunque, essendosi creata una certa attesa, le pronunciai in modo confuso.

Terminata la preghiera, Maria mise la mano in tasca per estrarre Il fazzoletto da naso. Il fazzoletto era annodato. “Cum’èla? (Come mai?)” – disse sbuffando, nel tentativo di sciogliere il nodo stretto verso il centro, a formare una specie di piccolo fagotto.  Rimanemmo a bocca aperta, quando la fede cadde sul tavolo, e la vedemmo roteare per un po’, prima di arrestarsi davanti ai nostri sguardi. Se l’era tolta la mattina stessa appena alzata, e aveva pensato bene di assicurarla al fazzoletto. “Töta cólpa ed la zinzèla de sta nót (Tutta colpa della zanzara di questa notte) – disse – la m’iva fat gnir un pruri al di, c’a i ho dvu cavèrla (mi aveva fatto venire un tal prurito al dito, che ho dovuto toglierla)

Non passarono molti giorni, e una vicina di casa suonò alla porta. “Strano!” – pensai - quando, affacciandomi alla finestra, mi accorsi chi era. Più che buongiorno e buonasera, avevamo avuto solo rare occasioni di conversazione. Chiedeva se io potessi farle il favore di leggere il Si quaeris per la sua bicicletta scomparsa. Coincidenza? O, piuttosto, qualcuno aveva sparso la notizia che io sapevo leggere il Si quaeris? Comunque fosse, con mio grande sollievo, questa volta non era richiesta la lettura in presenza. Pertanto, la lessi da solo, presentando a Dio la pena di quella donna. Non so se fu più in grado di trovare la bicicletta. In quella occasione mia madre disse che quella preghiera, recitata bene, ha il potere di indurre al pentimento i ladri, affinché restituiscano la refurtiva.

Ecco come cominciai a prendere confidenza con il libro della zia. In seguito, stazionò per un certo periodo sul mio comodino. Ogni tanto lo aprivo, leggevo qualcosa dalle meditazioni, o dalle visite al Santissimo, o brani della Via Crucis. Mi accorsi che quelle parole avevano un potere: erano in grado di raggiungere il mio cuore di bambino, come una freccia lanciata da un esperto arciere. La mia anima si accendeva di amore per Gesù e Maria, e vi trovava una sensazione di pace.

Più avanti, negli anni ’70, adolescente, ebbi modo di leggere gli autori più in voga, come Michel Quoist (il prete operaio di Le Havre autore di “Amare. Il diario di Daniele”), Evelin Vaugh, Carlo Carretto, Raoul Follereau, Abbè Pierre, Charles de Foucauld, ecc… Li lessi sì, ma sempre con la nostalgia di “Massime eterne”, sul quale, nel frattempo, era sceso un velo di silenzio imbarazzante. Stava diffondendosi la convinzione che leggere i libri delle nonne (“Filotea”, “Apparecchio alla buona morte”, “Massime eterne”, “L’imitazione di Cristo”, ecc…) fosse un’azione di cui vergognarsi, un’azione decisamente antiprogressista: il progresso era l’idolo di quegli anni. Ero come lacerato: il mio intimo desiderava i libri vecchi, perché, senza giri di parole, raggiungevano il vero obiettivo. Colpivano il bersaglio nel suo centro, mentre le nuove tendenze, vi si avvicinavano con risultati insufficienti. Inutile: chi ha conosciuto l’oro, non si accontenta delle luccicanti imitazioni. Fino a quando il pregiudizio ideologico avrebbe represso il mio anelito sincero? Alla fine, hanno vinto loro: i libri di una volta; e devo dire che “Massime eterne” è un titolo davvero indovinato. Persino dopo il 1981 (anno di svolta della spiritualità), con il ritorno alle devozioni, i nuovi manuali di preghiera, un po’ ridondanti e troppo inclini ai gusti e alle curiosità dei lettori, sempre in cerca di novità, non reggevano il confronto.

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