UNA "TERRIBILE" POSSIBILITÀ
- roncagliaenrico58
- 21 mag 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 22 mag 2024

Giovanni Ciani era un amico di mio padre. Era sempre una festa, quando si incontravano sul sagrato della chiesa la domenica mattina, all’uscita della Messa degli uomini. Anch’io prendevo parte a quell’esultanza, perché Ciani riservava sempre qualche complimento per me.
Un pomeriggio d’estate mio padre mi fece salire sulla canna della bicicletta e andammo a fargli visita. Lasciata la strada polverosa che fiancheggiava i campi di frumento, imboccammo la carreggiata di terra battuta che conduceva alla casa di Ciani.
Quando, con lungo stridere del freno, la bicicletta si arrestò, vidi la tipica aia di campagna. Dietro al letamaio, nell’aria tremolante del meriggio, c'era la stalla, da dove proveniva qualche raro muggito. Non un'anima viva, tutto era immobile. Il ronzio degli insetti e il frinire delle cicale infastidivano le nostre orecchie. Mio padre cominciò a gridare con tutto il fiato: “Ciani, Ciani”. Ci venne incontro un grosso cane dalla lingua penzolante. Era legato ad un filo che attraversava tutta l’aia, fino alla casa. Stando a debita distanza - “Ciani” - gridò ancora mio padre, mentre il cane aveva preso ad abbaiare. Finalmente, Ciani comparve dinanzi al portone della stalla. Accennava un saluto. Quando si avvicinò, non potei fare a meno di chiedermi se quello che stava davanti a noi era la stessa persona che, nei giorni di festa, si intratteneva con gli amici sul sagrato, vestito di tutto punto. Sotto quell’orribile cappellaccio di paglia, madido di sudore, con i vestiti logori e sporchi, faticavo a riconoscerlo. Si fermò davanti a noi. Ansimava. Si tolse il cappellaccio. Estrasse dalla tasca dei pantaloni un grande fazzoletto di tela giallognola, e cominciò ad asciugarsi il viso e a scacciare le mosche. Poi, fissandomi con gli occhi ancora bagnati, come se avesse appena pianto, puntò l’indice verso di me e, con piglio severo, disse: “Bèda, ve'! A-n fèr ménga al prét da grand, perchè t'è da savér che i prét i pórten la stanèla anch d’istè. Et capi?” (Sta’ attento, sai! Non fare mica il prete da grande, perché devi sapere che i preti portano la tonaca anche d’estate. Hai capito?). Ne seguì una risata. Risero entrambi Ciani e mio padre.
Mio padre chiese notizie della moglie. Ciani scosse la testa e indicò la finestra al primo piano. Sua moglie aveva bisogno di riposo, l’attendeva un’importante operazione. Mentre ancora parlava, un ragazzo, dagli abiti puliti e ben stirati, uscì di corsa e se ne andò davanti a noi. Il figlio, dopo le vacanze estive, avrebbe ripreso gli studi; voleva diventare perito.
“Ma, vin mégh, ch’andàm in ca’. Almànch a stàm al fràsch” (Ma vieni con me, che andiamo in casa. Almeno stiamo al fresco), disse rivolto a mio padre. Ci condusse nella penombra della cucina dove, dopo un iniziale brivido, ci sentimmo a nostro agio. Una striscia adesiva, piena di insetti morti, pendeva dal piatto del lampadario. Sulla credenza c’era la bomboletta del “Flit”.
Ciani mise in tavola i bicchieri. Si scusava per il servizio: di solito era la moglie che si occupava di quelle cose. Portò il belsone. Non era esattamente come quello che faceva mia madre, ma assomigliava molto. Portò del moscato e ne versò anche a me.
Mentre mio padre e Ciani proseguivano i loro discorsi e io gustavo il belsone imbevuto nel vino, mi tornarono alla mente le parole di poco prima: “… Non fare il prete da grande, perché i preti portano la tonaca anche d’estate.” C’era, dunque, la possibilità che anch’io diventassi prete? mi chiedevo. Cosa intendeva Ciani, rivolgendosi proprio a me, e in quel modo? Io... prete come don Giuseppe Reggiani, o come altri che conoscevo? Realizzavo, per la prima volta nella vita, che diventare prete poteva succedere, come era capitato ad altri. Era nelle probabilità. Non si poteva escludere.
Certo è che il caldo estivo sarebbe stato un ostacolo non indifferente. Come avrei potuto sopportare la canicola che imperversava senza tregua e gravava a perdita d’occhio sulla immensa pianura? Mi figuravo una talare: era tutta chiusa dal collo ai piedi, e con le maniche lunghe per giunta. Se, al presente, con i pantaloncini corti e le maniche corte mi sembrava di soffocare, come avrei potuto vivere tutti i giorni, da giugno a settembre, dentro a quell’involucro chiuso, per tanti anni?